INTRODUZIONE
Follow-up è un termine inglese che sta per «seguito», «successivamente» e vuole
indicare il «controllo» al quale i pazienti curati per cancro vanno sottoposti. Si basa
sulla conoscenza che il cancro, a differenza delle altre malattie, anche quando
clinicamente guarito, può riprodursi. Peraltro, come si è detto nel capitolo della
terapia, oggi guariamo, complessivamente, il 40% dei tumori, mentre nel restante 60%
otteniamo soltanto risultati provvisori o palliativi, con un miglioramento della qualità
della vita e possibilmente anche un allungamento di essa.
Se ne deduce che tutti i pazienti di cancro, i guariti e quelli che non guariscono, hanno
bisogno di periodici controlli clinici (visite mediche) e strumentali (radiografie,
endoscopie, ecografie, scintigrafie, marcatori biologici, etc.).
Nei pazienti clinicamente guariti i controlli periodici trovano giustificazione nel fatto
che possono verificarsi ripetizioni della malattia, sotto forma di recidive locali e/o di
metastasi a distanza, anche se con frequenze diverse da tumore a tumore e da paziente a
paziente, in rapporto con il variare dell'attività biologica dei vari tumori e con il
differente potenziale immunitario dei singoli pazienti.
Nei pazienti che non guariscono, il follow-up è ugualmente utile, sia per contrastare
l'evoluzione del male, sia per sostenere la forza del paziente e lenirgli le sofferenze.
L'esperienza ci ha dimostrato che i pazienti di cancro accettano di sottoporsi alle
esigenze del follow-up anche quando non sono al corrente della natura della malattia che
li ha colpiti.
Peraltro, il medico preparato e intelligente sa come rendere i controlli bene accetti e
come evitare quelle indagini defatiganti, che per l'aggravarsi della malattia e delle
condizioni generali del paziente non hanno più alcuna utilità o beneficio.
DIRE O NON DIRE LA VERITÀ ALL'AMMALATO DI CANCRO?
Le opinioni non sono concordi, variando in rapporto alla mentalità, la cultura e
l'emotività di ciascuno, nonché da paese a paese. I medici anglosassoni, specie gli
Americani, preferiscono dire sempre la verità sulla natura della malattia e sullo
sviluppo di essa. In Italia, invece, si tiene conto della paura atavica che si ha tuttora
del cancro e del concetto, presente in non pochi, che il cancro sia l'anticamera della
morte.
Come sempre, bisogna cercare una via di mezzo.
Secondo noi la verità va detta nei casi in cui l'informazione data al paziente consenta
di ottenerne l'autorizzazione per l'espletamento delle procedure diagnostiche e
terapeutiche. Un esempio: se a un paziente con cancro operabile dello stomaco si dicesse
che si tratta di ulcera e non di cancro, l'ammalato potrebbe rifiutare l'intervento
chirurgico, riferendo che decine di suoi amici e conoscenti, pur essendo affetti da
ulcera, sono guariti senza intervento chirurgico. Se, invece, a tale paziente si dice che
è sofferente di ulcera, ma con una potenziale evoluzione verso il cancro, si consegue lo
scopo di ottenerne il consenso per l'operazione. Altro esempio: se si fa diagnosi di
cancro ad un paziente che abbia problemi di successione ereditaria, oppure, perché
manager, di sistemazione societaria, aziendale o altro, il medico ha il dovere di dire,
nelle forme dovute, la verità sulla malattia e sull'evoluzione di essa, per dare
all'interessato il tempo di sistemare le sue cose. Di siffatti esempi se ne potrebbero
portare molti altri. Nella pratica ogni caso fa testo a sé ed il medico deve sempre
cercare di capire la psicologia del paziente e comportarsi in modo da convincerlo ad
accettare i suoi consigli. Ciò nella consapevolezza che nessuno vuole sentirsi dire
bruscamente che è ammalato di cancro, anche quando si sospetta la natura del male, cosa
che avviene più spesso di quanto non si creda. Ovviamente nel cancro avanzato nascondere
la verità al paziente è un dovere categorico, perché la speranza, soprattutto per il
malato grave, è l'ultima dea e nessuno deve arrogarsi il diritto di reciderla.